Meraviglie e minacce dell’universo digitalizzato

Ogni giorno nel mondo, grazie alle nuove tecnologie e ai processi di digitalizzazione, si generano 2,5 quintilioni (ovvero 2,5 miliardi di miliardi) di byte di dati e questa cifra è destinata ad aumentare vertiginosamente. L’80% di questi dati sono stati creati negli ultimi due anni, il restante 20% da quando è iniziata la storia dell’uomo. Da dove arrivano? Dalle fonti più disparate: Internet, Facebook, Twitter, WhatsApp, Snapchat, carte di credito, sensori presenti nell’ambiente…. Oggi ciascun individuo, oltre alla sua persona fisica, ha anche un’identità digitale, che lascia, spesso senza accorgersene, innumerevoli tracce di sé grazie alle connessioni con gli strumenti offerti dalla tecnologia. Che cosa riguardano questi dati? Di tutto: i parametri meteorologici, quelli dell’inquinamento, i flussi di traffico in una città, il ristorante preferito che postiamo su Facebook, la foto delle vacanze su Snapchat, l’ultimo acquisto che abbiamo fatto su Amazon, la spesa che abbiamo fatto al supermercato, registrata dalle carte “fedeltà”, il nostro commento via Twitter su quello che abbiamo letto o visto al cinema, i video su Youtube della festa di compleanno dei figli e i blog dove parliamo di qualsiasi argomento, o semplicemente l’ultima ricerca che abbiamo fatto su internet… L’ambiente genera dati e noi stessi generiamo dati. Abbiamo già parlato su Il Progettista Industriale dell’enorme rivoluzione digitale che ci aspetta, dallo Swarm di sensori, alla Human Internet, all’industria 4.0, all’automotive del futuro. Si tratta della rivoluzione/evoluzione dei Big Data. Uno degli impulsi più grandi si è avuto con l’avvento degli smartphone e delle possibilità offerte dalla mobilità digitale. Tuttavia, tutto quello che abbiamo imparato fino ad oggi sul mondo digitale è destinato a dissolversi completamente come neve al sole.

Dopo gli smartphone…

In un futuro neanche troppo lontano gli smartphone sono destinati a scomparire, perché grazie a miliardi di sensori, l’uomo sarà immerso completamente nel mondo digitalizzato e sarà anzi parte del sistema stesso, nel momento in cui potranno essere impiantati chip nel suo cervello. Alcuni esperimenti hanno dimostrato che è già possibile creare un’interfaccia fra il cervello e Internet in modo che le onde cerebrali (e cioè il pensiero) possano comandare a distanza un altro soggetto: è accaduto che scimmie in Texas siano riuscite a far muovere un braccio ad altre scimmie in Massachusetts. In un siffatto mondo, non avranno più senso le interfacce fisiche quali tastiere, schermi multitouch, smartphone o sistemi di puntamento come il mouse: sarà sufficiente interagire con il mondo digitale come si fa tra esseri umani. Non è un caso che gli attori principali di questo presente – Apple e Google – stiano investendo tantissimo in ambiti apparentemente molto distanti da quello attuale, quale l’automotive. È impressionante pensare che, negli ultimi dieci anni, Apple abbia investito complessivamente molto più nell’automotive, che nella somma di tutti gli altri attuali prodotti, dall’iPhone, all’iPad, ai MacBook, all’iPod… È un segno che, per garantirsi un futuro, bisogna reinventarlo costantemente, cambiando di continuo le regole del gioco.

Raccogliere e interpretare i dati: i data scientist

Ma cosa ce ne facciamo di tutti questi dati? Per adesso poco: nella maggior parte dei casi e almeno per ora, tali dati sono dark, oscuri: non sono strutturati e non sono fruibili e interpretabili dai nostri computer. Di più: per il momento la stragrande maggioranza di tali dati non è nemmeno utilizzata: oggi siamo infatti in grado di sfruttare solo il 7% dei dati disponibili, ma questi dati già ci permettono di offrire nuove soluzioni in sanità e di ovviare a problemi come il fatto che, secondo le stime, ogni anno in America vengono sprecati cento milioni di dollari nelle diagnosi di malattia, proprio perché non usiamo le informazioni a nostra disposizione. Perché non siamo in grado oggi di fare di più? Uno dei grossi problemi riguarda l’interpretazione dei dati. Purtroppo non è possibile inserire i dati in una scatola “magica” dalla quale estrarli ben confezionati ed ordinati. C’è bisogno di nuove figure professionali, di data scientist, che creino modelli capaci di interrogare i dati e di interpretarne le risposte. Al Politecnico di Milano, per esempio, sta per partire un progetto di Data Driven Genomic Computing, che ha come obiettivo quello di utilizzare al meglio i dati a disposizione delle banche del DNA umano sparse in tutto il mondo. Ma c’è un problema più a monte: la necessità di raccogliere i dati in modo sistematizzato nei data base e standardizzarli perché siano poi confrontabili fra di loro. Troppo spesso, infatti, il mondo scientifico risulta essere molto frammentato, ciascuno studia componenti specifiche di un organismo, come le molecole oppure le cellule o ancora i tessuti o gli organi, con metodologie diverse e spesso le informazioni non sono confrontabili. È quindi necessaria una differente organizzazione dei dati (che oggi devono essere open, aperti, perché tutti vi possano accedere), che potrebbe certamente portare a velocizzare la ricerca scientifica. È però innegabile che una volta che tali dati siano correlabili e interpretabili, sarà possibile avere risultati strabilianti in moltissimi campi, primo fra tutti quello medico.

Alcune questioni aperte: privacy, sicurezza, etica

Che sfide, etiche e politiche ci pongono tutto questo? Elencarli è facile: problemi di privacy (anche se oggi sempre più persone sono disponibili, almeno negli Stati Uniti, a rendere pubblici i propri dati), di sicurezza, di etica e di politica. Sulla privacy si potrebbe già ora scrivere più di un libro: si va dal caso di Henrietta Laks, una donna statunitense malata di tumore all’ovaio, le cui cellule cancerose erano state “immortalizzate” a scopo di studio, senza che nessuno della sua famiglia lo sapesse, alle informazioni contenute in una cartella clinica che oggi sta diventando digitale, oppure quelle presenti nel DNA di una persona. I problemi etici, poi, sono infiniti. Pensiamo soltanto all’editing genomico: nel momento in cui si hanno informazioni sul patrimonio genetico di un individuo (e oggi è facile leggerlo a bassissimi costi) o, a maggior ragione, di un embrione che deve essere impiantato durante una procedura di fertilizzazione in vitro, possiamo manipolarlo: a chi spetta la scelta? Agli scienziati? All’individuo? Al mercato (tenendo conto che dietro tutte queste nuove tecnologie ci sono anche interessi commerciali)? Ai politici? E chi stabilisce le regole? Come al solito la scienza corre più in fretta delle leggi. Infine, ma non per importanza, c’è la questione della sicurezza: se è possibile inserire un chip nel cervello di una persona, come si può garantire che un hacker non interferisca per far compiere a questa persona azioni di vario tipo? Ecco quindi che la sfida nella sfida è quella di progettare in modo sicuro ed efficiente il prossimo futuro. Il potenziale è infatti enorme anche dal punto di vista economico e la tecnologia rende già oggi facile e possibile ciò che ieri sembrava fantascienza. È però fondamentale adottare un approccio consapevole all’innovazione, passando da una situazione attuale di “Plug & Pray”, nella quale troppo spesso si cerca di innovare senza pensare a tutte le possibili conseguenze, sperando che non succedano disastri, ad una progettazione consapevole, sicura ed efficiente, in grado di valorizzare in maniera etica e costruttiva l’enorme valore della ricerca scientifica.

 

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