Design thinking. A che punto siamo?

I risultati della Ricerca dell’Osservatorio Design Thinking for Business della School of Management del Politecnico di Milano hanno rivelato come il Design Thinking sia una realtà in grande fermento, un vero e proprio boom nei settori più investiti dalla trasformazione digitale.

di Lara Morandotti

La migliore soluzione innovativa basata su metodi e processi per risolvere problemi pratici in modo creativo, mettendo al centro i bisogni delle persone in una attualità in cui il design è ormai un fattore fondamentale per creare e gestire l’innovazione in tutti i settori economici e le funzioni aziendali. Ecco a cosa porta l’approccio del Design Thinking, nato negli Stati Uniti una ventina di anni fa.

Tra i più grandi formatori in questo senso, oggi spicca anche il Politecnico di Milano, che lo scorso maggio ha organizzato il webinar Humanizing Digital Technologies through Design Thinking: Transformations, Applications and Evolutions che – coinvolgendo nomi illustri del mondo del design – ha puntato i riflettori su come il Design Thinking rivoluzioni la gestione dell’innovazione digitale nelle imprese, rendendola a misura d’uomo.

“Il Design Thinking – ha affermato Roberto Verganti, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Design Thinking for Business – è uno strumento che consente alle persone, in un momento di esposizione a una mole crescente di informazioni e a tecnologie sempre più complesse e in costante evoluzione, di cogliere ciò che è veramente di valore in un prodotto o servizio e ciò che può portare davvero innovazione e coinvolgimento nelle aziende».

L’approccio

Il Design Thinking, approccio alternativo all’innovazione che integra capacità analitiche con attitudini creative, sta vivendo un vero e proprio boom nei settori più investiti dalla trasformazione digitale e trova applicazione nella risoluzione di problemi complessi (approccio Creative Problem Solving), nella fase di realizzazione e verifica rapida di prodotti e servizi (Sprint Execution), nelle attività pensate per coinvolgere più profondamente i dipendenti nei processi creativi (Creative Confidence) e nella ridefinizione della visione strategica aziendale (Innovation of Meaning).

Una delle chiavi principali del Design Thinking è rendere le tecnologie “a misura d’uomo”, con approcci human-centered all’innovazione, consentendo – soprattutto nei momenti attuali di forte sfida e trasformazione – di recuperare la centralità dell’essere umano.

Gli interventi di importanti designer hanno illustrato il concetto di Design Thinker come ruolo di facilitatore culturale nel dialogo all’interno dell’azienda, connettendone le varie entità.

Le parole del designer italiano Mario Porcini, in collegamento dalla sua abitazione di New York, sono state efficaci quanto poetiche: «Il Design nell’interpretazione Thinking è l’atto di sognare, disegnare, eseguire e commercializzare soluzioni che siano esperienze uniche e significative per il nostro target. È una grandissima sfida quella di creare delle storie che siano coerenti attraverso tutti i punti di contatto del brand-prodotto e nelle varie geografie del mondo, mantenendo rilevanza locale».

Un altro livello di complessità è l’impressionante velocità con cui tutto oggi si muove, con cicli di innovazione sempre più rapidi. Si pensi al mondo dell’automobile: oggi per sviluppare una nuova auto ci vogliono tre anni, contro i dieci che occorrevano in passato. Come riuscire a capire, monitorare e carpire tutte le tendenze che ci sono nella società, i gusti dei consumatori, i loro comportamenti, ciò che li differenzia e poi sviluppare velocemente prodotti che siano rilevanti per loro?

«Il design thinking – ha spiegato Mauro Porcini – è un mix di empatia e lettura del business, dove capire cosa è rilevante e strategico. In 3M e in PepsiCo sono intervenuto proprio con questo approccio: dopo aver capito cosa l’azienda avesse bisogno è iniziata la fase prototipale per giungere alla soluzione migliore sotto tutti i punti di vista».

L’illustre designer, inoltre, ha sintetizzato in modo chiaro il percorso del design: «L’azienda non si rende conto di aver bisogno di “qualcosa” di diverso poiché non ha intercettato i cambiamenti del suo specifico segmento. Successivamente, invece, decide di investire sul design, ma in realtà l’atteggiamento concreto è “di rigetto” per la novità; fino all’effettivo “salto” per cui sceglie di credere nel design e nello specifico progetto. In ogni caso, le aziende devono capire come creare Confidence nel nuovo approccio progettuale e integrarlo nei processi dell’azienda».

I risultati dell’analisi

La ricerca dell’Osservatorio Design Thinking for Business della School of Management del Politecnico di Milano, presentata durante il convegno ha messo in evidenza numeri decisamente positivi.

«Il Design – ha affermato Francesco Zurlo, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Design Thinking for Business – è ormai un fattore fondamentale per creare e gestire l’innovazione in tutti i settori economici e le funzioni aziendali. L’ecosistema del Design Thinking è più maturo rispetto all’anno scorso, con più progetti di consulenza, innovatori più esperti e strutturati, ma anche la nascita delle prime startup italiane che offrono soluzioni in questo ambito».

Passando ai numero, sono 289 gli “innovatori” che utilizzano il Design Thinking nelle imprese italiane, il 72% in media da oltre 4 anni, soprattutto nei settori della finanza e assicurazioni, informazione e comunicazione e Pubblica Amministrazione. I soggetti hanno messo in luce come tale approccio sia adottato da diversi ruoli aziendali: top manager, designer, esperti di marketing, business development e information technology.

I progetti di consulenza strategica basati sul Design Thinking in Europa sono 452, di cui 200 in Italia, dove è coinvolto mediamente il 54% dei dipendenti di ogni unità aziendale e che hanno generato in media poco meno di 30 milioni di euro, pari al 45% dei ricavi, soprattutto nei settori finanza e assicurazioni, manifattura e retail. Lo scopo è quello di risolvere problemi complessi, realizzare e testare rapidamente prodotti e servizi, coinvolgere i dipendenti nei processi creativi e ridefinire la visione strategica aziendale.

Gli approcci che producono più ricavi in Italia sono il Creative Confidence (27% del fatturato) e la Sprint Execution (26%), mentre i modelli più in crescita sono il Creative Confidence (+11%) e l’Innovation of Meaning (+10%).

In tutto il mondo, sono 279 le startup che offrono soluzioni digitali a supporto del Design Thinking, di cui 4 in Italia, per un totale di 2,1 miliardi di dollari di finanziamenti, pari a una media a 7,6 milioni di dollari a startup. Si tratta certamente di una presenza ancora embrionale nel nostro Paese, ma con progressi rispetto allo scorso anno, quando ancora nessuna startup italiana era stata registrata.

«I dati raccolti dall’Osservatorio – ha dichiarato Claudio Dell’Era, Direttore dell’Osservatorio Design Thinking for Business – mostrano come l’Italia abbia già iniziato dallo scorso anno ad adottare tecnologie digitali per facilitare e supportare i processi creativi di innovazione. In questo ginepraio digitale la dimensione umana è lasciata a margine e il Design Thinking ci mostra invece come questo aspetto sia fondamentale. Non è sufficiente portare in digitale quello che si faceva nel mondo fisico».

I modelli principali

Tra i modelli utilizzati per affrontare i problemi posti dai processi di innovazione, il più adottato è il Creative Confidence. Esso mira al coinvolgimento dei dipendenti aziendali per creare e alimentare una cultura organizzativa e una mentalità adatte ad affrontare con fiducia i processi di innovazione. A seguire c’è il Creative Problem Solving: le imprese innovano comprendendo i bisogni dell’utente e immaginando la più elevata gamma di soluzioni possibili per rispondere alle sue esigenze, giungendo poi alla soluzione dominante restringendo il campo. La metodologia che invece punta a realizzare molto velocemente una soluzione in linea con le esigenze degli utenti, per poi migliorarla dopo aver analizzato l’interazione e la reazione dei consumatori è la Sprint Execution, che precede in termini di utilizzo l’Innovation of Meaning (19%), il modello meno gettonato, quello con cui le imprese ridefiniscono la visione aziendale, i messaggi e i valori legati ai prodotti e ai servizi.

L’importanza dei data nel design thinking

Non è un caso che il Design Thinking stia crescendo in quei settori in cui la trasformazione digitale richiede nuove competenze per sviluppare un’esperienza utente realmente efficace, dove tecnologie come Big Data, Artificial Intelligence e Internet of Things hanno effetti più dirompenti.

Dall’incontro tra esperti è emerso che il Design Thinking sta abilitando dei nuovi approcci al data management con logiche di iterazione che alimentano un dialogo continuo, confrontando ciò che emerge tanto dagli small data che dai big data, verso nuovi modelli di relazione. Occorre parlare un linguaggio nuovo, ma nelle aziende spesso si vive nei “silos”, dove è difficile l’integrazione tra competenze. È importante, quindi, svincolarsi dall’appartenenza specifica dei silos.

Altro argomento cruciale è inerente l’Artificial Intelligence, la tecnologia più utilizzata dalle startup che supportano i processi di Design Thinking.

«L’AI e, più in generale, le tecnologie digitali – ha spiegato Cabirio Cautela, Direttore dell’Osservatorio Design Thinking – sono prevalentemente impiegate nelle fasi di Design Thinking con cui si raccolgono informazioni dagli utilizzatori di prodotti e servizi, entrando in empatia con loro e re-interpretandone le necessità. Ad appannaggio di progettisti e designer, invece, rimangono le fasi di ideazione, prototipazione e lancio di un’innovazione rimangono. Le tecnologie non possono ancora sostituire la creatività e l’innovatività individuale, ma i Design Thinkers che sanno usare bene le tecnologie digitali sono estremamente più efficaci».

La voce dei designer

«Non è in discussione il valore di avere dati attendibili, sia small che big. Il punto centrale è nella loro integrazione, nel loro mix poiché servono in modo strategico a diversi scopi; da qui la dicotomia tra puristi della ricerca qualitativa e della ricerca quantitativa.  Small e big devono essere integrati, mixati perché servono a diversi scopi».

Roberta Capellini, Avanade

«Small e big data sono entrambi sono fondamentali per il Design Thinking. Spesso noi designer ci portiamo dietro a livello organizzativo dei silos, per cui i reparti di un’azienda non comunicano fra loro e causano non pochi problemi. Il Design Thinking è proprio quel motore di mediazione che risolve e mette in comunicazione tutta l’azienda».

Alessandro Piana Bianco, Deloitte Digital 

 

«I dati sono estremamente preziosi, frutto della traslazione di una metrica del mondo reale in una informazione digitale con un numero binario. Innovare è un momento creativo specifico della natura umana che può essere solo supportato dalla tecnologia, non creato da essa. I dati, sia small che big, devono essere utilizzati per valutare meglio le fasi preliminari del processo di esplorazione».

Gabriele Cafaro, Design Group Italia

 

«Gli small data e i big data sono entrambi necessari e complementari, l’uno non può sostituire l’altro. In futuro mi piacerebbe utilizzare i big data, che senza gli small data sono difficili da manipolare, per allargare il perimetro del Design Thinking ed aggiungere la variabile tempo e le conseguenze delle scelte che facciamo».

Antonio Grillo, Digital Entity

 

«I big data hanno un ruolo fondamentale nella trasformazione digitale ed il Design Thinking è uno strumento efficace per estrarre da loro valore ed opportunità di innovazione».

Alessandra Fidanzi, Eni

 

«Bisogna dare sempre massima attenzione ai dati, che devono essere resi “actionable”, soprattutto nella fase di discovery. Studio e utilizzo del dato di un comportamento mixato al comportamento del mercato sono le leve che permettono ai designer di progettare soluzioni concrete. Il dato ci consente di conoscere in modo approfondito i nostri clienti e indirizzare le azioni di market in modo efficace e coerente ad un bisogno».

Elisa Franzini, Poste Italiane

 

Design: Italia VS USA
Il brand culturale italiano è fatto da tanti elementi di cui il comparto del Design è fiero. Il trucco verso il successo sta nel giusto equilibrio tra il mondo italiano e quello anglosassone, mixando le due culture. «In Italia – ha spiegato Mauro Porcini – si ha un approccio più istintivo,guidato dal processo, più olistico, artistico e concentrato sulle PMI, mentre in America c’è un approccio più industriale e di larga scala. La cultura anglosassone ha bisogno più che mai dell’intuitività e dell’approccio italiano al problem solving, ma anche dell’energia pazzesca che c’è in Cina, lì è pazzesca la velocità e l’efficacia della sperimentazione sul mercato prima del lancio».