Usando la luce verde e una cella a doppio strato, un team di ricercatori dell’Università di Eindhoven, ha ideato un fotodiodo che ha un’efficienza così elevata da essere paragonata alla magia di Harry Potter.
di Lisa Borreani
Nel tentativo di fornire migliori condizioni di vita a una popolazione mondiale in aumento, ci troviamo ad affrontare i limiti degli attuali sistemi manifatturieri, agricoli e sanitari, che portano a un impatto ambientale e a costi economici eccessivi. Ciò sta guidando la transizione verso nuovi paradigmi, come l’industria intelligente, l’agricoltura di precisione e l’assistenza sanitaria personalizzata, in cui processi e trattamenti vengono adattati attivamente sulla base di dati accurati, locali e in tempo reale provenienti dai sensori. I sensori fotonici e quantistici possono fornire la massima precisione richiesta in queste applicazioni, ma sono generalmente complessi e costosi. La sfida è raggiungere la massima precisione in sistemi di sensori che siano anche compatti e scalabili. Per affrontarlo, combiniamo nuovi approcci basati sull’integrazione fotonica ed elettronico-fotonica con l’indagine dei limiti fondamentali del rilevamento, fino al livello quantistico.
Lo sviluppo dei sensori
Un team di ricercatori della Eindhoven University of Technology e TNO dell’Holst Center (Paesi Bassi) è riuscito a realizzare fotodiodi con una resa fotoelettronica superiore al 200%. Nessuno avrebbe pensato che efficienze superiori al 100 percento fossero realmente possibili, se non con l’utilizzo dell’alchimia o di altre magie come quelle viste nei film di Harry Potter.
I ricercatori hanno dimostrato che si può fare e la risposta sta nel magico mondo dell’efficienza quantistica e delle celle solari sovrapposte.
Cosa sono i fotodiodi?
I fotodiodi sono dispositivi semiconduttori sensibili alla luce che producono una corrente quando assorbono fotoni da una sorgente luminosa. Sono utilizzati come sensori in una varietà di applicazioni, tra cui per scopi medici, monitoraggio wearable, sistemi luminosi e di sorveglianza, applicazioni con l’utilizzo della visione artificiale; in tutti questi settori l’elevata sensibilità è fondamentale.
Affinché un fotodiodo funzioni correttamente, deve soddisfare due condizioni. In primo luogo, dovrebbe ridurre al minimo la corrente generata in assenza di luce, la cosiddetta corrente oscura. Minore è la corrente oscura, più sensibile è il diodo. In secondo luogo, dovrebbe essere in grado di distinguere il livello di luce di fondo (il cosiddetto “rumore”) dalla relativa luce infrarossa. Purtroppo queste due cose di solito non vanno d’accordo, anzi risulta complicato soddisfare entrambe le condizioni contemporaneamente.
I lavori preliminari
Come punto di partenza, il team ha lavorato su un dispositivo che combinava due tipi di celle del pannello solare, perovskite e organiche, raggiungendo un’efficienza quantica del 70%. Per spingere questa cifra più in alto, è stata introdotta un’ulteriore luce verde. Il sensore è stato inoltre ottimizzato per migliorare la sua capacità di filtrare diversi tipi di luce e di non rispondere affatto all’assenza di luce. Ciò ha spinto l’efficienza quantistica del fotodiodo oltre il 200%, anche se attualmente non è ancora chiaro esattamente per quale motivo si sta verificando tale aumento.
René Janssen, professore che guida il gruppo di ricerca interdipartimentale “Molecular Materials and Nanosystems” presso l’Università di Tecnologia di Eindhoven, fa parte dei dipartimenti di ingegneria chimica e chimica, nonché di fisica applicata, è il coautore dell’articolo relativo a questi fotodiodi, su Science Advances. Il professor Janssen spiega. “Lo so, sembra incredibile. Ma qui non stiamo parlando della normale efficienza energetica. Ciò che conta nel mondo dei fotodiodi è l’efficienza quantistica. Invece della quantità totale di energia solare, conta il numero di fotoni che il diodo converte in elettroni. Lo paragono sempre ai giorni in cui avevamo ancora fiorini e lire. Se un turista olandese avesse ricevuto solo 100 lire per i suoi 100 fiorini durante la sua vacanza in Italia, si sarebbe sentito un po’ a corto di soldi. Ma poiché in termini quantistici ogni fiorino conta come una lira, hanno comunque raggiunto un’efficienza del 100 per cento. Questo vale anche per i fotodiodi: il diodo migliore e’ quello in grado di rilevare segnali luminosi deboli.”
La ricerca
Quattro anni fa, Riccardo Ollearo, uno degli studenti della facoltà di Ingegneria, dottorato del prof. Janssen e ricercatore principale del progetto, ha deciso di dedicarsi ai fotodiodi. Nella sua ricerca ha unito le forze con il team di ricercatori che lavora presso l’Holst Center, un istituto di ricerca specializzato in tecnologie di sensori wireless e stampati; Ollearo ha costruito un cosiddetto diodo tandem, un dispositivo che combina sia perovskite che celle fotovoltaiche organiche.

Combinando questi due strati – una tecnica sempre più utilizzata anche nelle celle solari di ultima generazione – è stato in grado di ottimizzare entrambe le condizioni, raggiungendo un’efficienza del 70%.
La struttura è progettata per essere otticamente autofiltrante, con il diodo anteriore che assorbe una lunghezza d’onda inferiore a ~650 nm, impedendo a tutto tranne che al vicino infrarosso di raggiungere l’eterogiunzione di massa a banda proibita posteriore.
Per evitare che la cella di perovskite anteriore contribuisca alla fotocorrente, tra i due strati fotosensibili c’è uno strato elettricamente attivo otticamente inattivo (costituito dal polimero “PFN-Br”) che blocca selettivamente gli elettroni generati nel film di perovskite durante il passaggio buchi dall’eterogiunzione di massa organica a banda stretta, rendendo la cellula sensibile solo alle lunghezze d’onda maggiori.
Nel complesso, la struttura ha un’efficienza quantica esterna (EQE) con un picco del 70% a 850 nm (larghezza intera a metà max <100 nm). Tuttavia, l’EQE, per quanto riguarda il vicino infrarosso, sale al 220% se anche la cella è illuminata con luce verde (60 mW/cm2 a 540 nm).
L’elevata efficienza dei fotodiodi
Sebbene il meccanismo di questo guadagno non sia dimostrato, il team ritiene sia dovuto all’illuminazione verde che porta gli elettroni a raccolgliersi nel film di perovskite, e ad essere poi controllati nella barriera PFN-Br quando i fori generati nel vicino infrarosso sul lato di giunzione della massa organica abbassa temporaneamente l’energia della barriera.
“Impressionante, ma non abbastanza”, afferma l’ambizioso Ollearo, giovane ricercatore italiano. “Ho deciso di verificare se potevo aumentare ulteriormente l’efficienza con l’aiuto della luce verde. Sapevo da ricerche precedenti che l’illuminazione di celle solari con luce aggiuntiva può modificare la loro efficienza quantica e, in alcuni casi, migliorarla. Con mia sorpresa, questo ha funzionato meglio del previsto nel migliorare la sensibilità del fotodiodo. Siamo stati in grado di aumentare l’efficienza della luce nel vicino infrarosso di oltre il 200%!”
I ricercatori non hanno ancora tutte le certezze, sebbene abbiano escogitato una teoria che potrebbe spiegare l’effetto.
“Pensiamo che la luce verde aggiuntiva porti a un accumulo di elettroni nello strato di perovskite. Questo agisce come un serbatoio di cariche che viene rilasciato quando i fotoni infrarossi vengono assorbiti nello strato organico”, dice Ollearo. “In altre parole, ogni fotone infrarosso che passa e viene convertito in un elettrone, riceve compagnia da un elettrone bonus, portando a un’efficienza del 200 per cento o più. Immaginalo come ottenere due lire per il tuo fiorino, invece di una!“
Ollearo ha testato il fotodiodo, che è cento volte più sottile di un foglio di carta da giornale e adatto per l’uso in dispositivi flessibili. “Volevamo vedere se il dispositivo captasse segnali sottili, come il battito cardiaco o la frequenza respiratoria di un essere umano in un ambiente con una luce di fondo realistica. Abbiamo optato per uno scenario indoor, durante una giornata di sole con le tende parzialmente chiuse. E ha funzionato!”
Le potenzialità del fotodiodo
Tenendo il dispositivo a 130 cm da un dito, i ricercatori sono stati in grado di rilevare piccoli cambiamenti nella quantità di luce infrarossa riflessa nel diodo. Questi cambiamenti risultano essere un’indicazione corretta dei cambiamenti nella pressione sanguigna nelle vene di una persona, che a loro volta indicano la frequenza cardiaca. Puntando il dispositivo verso il torace della persona, sono stati in grado di misurare la frequenza respiratoria dai leggeri movimenti del torace.

Con la pubblicazione dell’articolo su Science Advances, il lavoro di Ollearo è quasi terminato.
“Le possibili applicazioni vanno dai veicoli a guida semi-autonoma ai sistemi per la realtà aumentata e virtuale, dai dispositivi per case smart fino all’autenticazione biometrica. Inoltre – prosegue il ricercatore – il nostro sensore è in grado di rilevare segnali di luce molto piccoli anche a distanze elevate: abbiamo dimostrato, per esempio, che può monitorare in modo non invasivo il battito cardiaco e la respirazione di una persona da oltre 1,3 metri”.
Quindi, la ricerca si ferma qui?
“No, certamente no. Vogliamo vedere se possiamo migliorare ulteriormente il dispositivo, ad esempio rendendolo più veloce”, afferma Janssen. “Vogliamo anche valutare se possiamo testare clinicamente il dispositivo, ad esempio in collaborazione con il progetto FORSEE”.
Il progetto FORSEE, guidato dalla ricercatrice TU/e Sveta Zinger e in collaborazione con il Catharina Hospital di Eindhoven, sta sviluppando una telecamera intelligente in grado di osservare la frequenza cardiaca e respiratoria di un paziente. Il monitoraggio remoto, senza alcun contatto con la pelle del paziente, sarebbe più facile da configurare, più igienico e più comodo.
Speriamo che i ricercatori continuino a dimostrare che non è necessario essere un Harry Potter per realizzare incredibili imprese scientifiche!