L’Intranet umana: quando i chip saranno all’interno del nostro corpo

Internet non si ferma mai: si diffonde in maniera sempre più capillare, si espande in continuazione, penetra ovunque e “occupa” sempre di più le persone (e non solo in senso metaforico di occupare il loro tempo). Ormai non esiste oggetto o punto al mondo che non sia connesso o connettibile alla rete o raggiungibile grazie a internet. Attraverso una connessione satellitare, anche i punti più remoti dei deserti e/o degli oceani possono essere messi in rete. In futuro l’uomo sarà immerso nel digitale e sarà così semplice parlare con internet, che non ci sarà più bisogno di imparare a farlo, come già avviene con Pokémon Go. Nel corso della dodicesima edizione di “The Future of Science” organizzato da Fondazione Umberto Veronesi, Fondazione Tronchetti Provera e Fondazione Cini è apparso chiaro che questo futuro è già presente: il matrimonio tra il “biologico e digitale” è già una realtà. Internet non è più “soltanto” fuori di noi, ma la sua trasposizione all’interno del nostro corpo è cominciata e passa sotto il nomignolo di “human intranet” o intranet umana. Questo è il nome che a Berkeley hanno dato una piattaforma aperta e scalabile che integra senza soluzione di continuità un numero sempre crescente di nodi sensori, di attuatori, di processori, di sistemi di archiviazione dati, di comunicazione e di energia situati, all’interno, o nelle immediate vicinanze del corpo umano, in grado di agire in simbiosi con le funzioni previste dal corpo stesso.

Come Internet, questa “intranet” si sviluppa organicamente come una maglia eterogenea di nodi connessi (cablata o wireless), che collaborano per fornire servizi in maniera garantita, nonostante i severi vincoli ambientali, di energia e di dimensioni. A spiegare di cosa si tratta davanti a una platea composta da oltre quattrocento persone è stato Alberto Sangiovanni-Vincentelli, una delle menti più brillanti al mondo degli ultimi decenni, titolare della cattedra di Ingegneria Elettronica e Computer Science con la Endowed Chair “Edgar L. and Harold H. Buttner” presso l’Università della California, Berkeley, nonché autore di più di 850 articoli scientifici, di 15 libri sui sistemi integrati, sull’embedded software, e sulle metodologie e gli strumenti di progettazione VLSI, e di tre brevetti nel campo delle tecnologie, metodologie e sistemi innovativi. Il suo intervento è partito da quelle che sono le premesse di questo “matrimonio” biologico-digitale: già da anni esistono in commercio dei braccialetti-sensore, che controllano il cuore e altri valori base. Nati per la pratica di attività sportive, questi oggetti sono in grado di fornire tutta una serie di dati biologici per pochi dollari. Ovviamente esistono dei dispositivi più sofisticati e precisi, di tipo “usa e getta”, utilizzati in ambito medico hi-tech da applicare sul cuore, che sono in grado di inviare i dati direttamente all’ospedale oppure a un altro terminale prescelto. Non è quindi una novità assoluta il poter raccogliere tutte le informazioni possibili del corpo.

Oggi, tuttavia, assistiamo ad un cambio di marcia: il “chip” va dentro il corpo. E non dentro una parte qualsiasi, ma dentro la parte più delicata del nostro organismo e della nostra identità, il cervello. Anche questa non è una novità assoluta, poiché i dispositivi sono stati introdotti già da diversi anni nel cervello di persone non rispondenti ai rimedi farmacologici, affette da gravi problemi di depressione, Parkinson e schizofrenia. I risultati? “Buoni, anche se non si sa ancora come funziona in dettaglio”. Del resto si sa da quasi cent’anni che le scosse elettriche sul cervello possono essere efficaci: da quando è stato inventato negli anni trenta l’elettroshock. Il meccanismo di azione della terapia elettroconvulsivante (TEC) o elettroshock non è conosciuto, ma diversi studi hanno dimostrato che la ripetuta applicazione del trattamento influisce su diversi neurotrasmettitori nel sistema nervoso centrale e nel riassestamento degli assoni che modifica l’architettura dei circuiti nervosi.

La TEC sembra sensibilizzare due sottotipi di recettori per la serotonina (aumentando la trasmissione del segnale) e ridurre l’efficacia della norepinefrina e della dopamina, causando il rilassamento di molti pazienti. Le correnti che si usano col chip interno sono bassissime, a differenza della TEC “classica”. Inoltre si impiega il dispositivo anche per osservare il cervello e capire come agisce. Addirittura a Berkeley c’è già una start-up, creata da due studenti di cui uno italiano, che produce i chip e li commercializza. A ben vedere è un’evoluzione della terapia nota col nome di stimolazione celebrale profonda o DBS (Deep Brain Stimulation), con la quale si va a stimolare, tramite degli elettrodi impiantati stabilmente nel cervello e collegati ad una sorta di “pace maker”, alcune aree specifiche del cervello, per la ridurre sensibilmente i sintomi di malattie invalidanti come il Parkinson.

Altre applicazioni pensabili del chip impiantato porteranno a collegare un arto artificiale direttamente alle onde elettromagntiche cerebrali: «La persona potrà così muovere la protesi senza accorgersene, come con un arto naturale». Ci sono poi studi che stanno testando come la pelle artificiale, collegata anch’essa al chip, possa dare la sensazione di caldo o freddo come una vera pelle umana. Fin qui le possibilità per così dire totalmente positive. C’è infatti un altro esperimento – perfettamente riuscito – che ha messo in piena luce l’incredibile e inquietante rischio che l’intranet umana può rendere possibile.

In Massachussets è stato possibile “addestrare” attraverso un computer, alcune scimmie (alle quali il chip era stato impiantato nella testa) ad alzare un braccio, a totale piacimento dell’operatore: attraverso l’intranet, gli studiosi sono riusciti a modificare il volere delle scimmie. Nella relazione di Sangiovanni-Vincentelli si sono imposte parole come “difesa della privacy” e “sicurezza” quali necessità imprescindibili, riprese anche in altri interventi sui big-data. Per il momento, tuttavia, in questa fase ancora pionieristica, i risultati strepitosi vanno a braccetto con i notevoli rischi connessi. I più ovvi e scontati sembrano essere la necessità di bucare la testa, il possibile rigetto, l’eventualità che il chip possa sviluppare troppo calore e che le onde elettromagnetiche del cervello possano essere carpite da altri, consentendo in un futuro nemmeno troppo lontano di poter leggere il pensiero…

Per non parlare della totale mancanza di informazioni degli effetti di lungo periodo di onde elettromagnetiche non naturali all’interno del cervello. Infine, come illustrato dall’esperimento condotto sulle scimmie, addio sicurezza: esiste la possibilità di prendere il controllo del chip e, dunque, della persona. Un rischio che il professor Sangiovanni-Vincentelli ha segnalato anche relativamente agli autoveicoli a guida autonoma («L’auto che marcia senza conducente può essere una grande innovazione, ma quando si è su non si può far nulla per cambiare la sua rotta»), con un risvolto anche per il terrorismo e la sicurezza: «Pensate a terroristi che via internet si impadroniscono di una di queste auto con una personalità a bordo che a loro interessa e la rapiscono. Oppure che piazzino una quindicina di queste auto intorno a Los Angeles, le carichino di esplosivo e le telecomandino verso il centro». Cosa potrebbe accadere? Dai big-data, per il momento, nessuna risposta.