Introduzione alle tensioni residue: da nemico nascosto a prezioso alleato

aperturaBenché  il concetto e l’esistenza del fenomeno delle tensioni residue siano stati formalizzati fin dalla prima metà del 1800,  per entrare poi a pieno titolo nella scienza ingegneristica nel secondo dopoguerra,  ancora oggi bisogna ammettere che le tensioni residue sono un fenomeno largamente sottostimato e spesso trascurato. Un fatto che ha dell’incredibile, se si considera che il fenomeno delle tensioni residue riguarda praticamente tutti i materiali tecnici e si manifesta su ogni manufatto che subisca una lavorazione meccanica, un trattamento termico, un processo chimico o metallurgico. Ed e’ ancora piu’ incredibile alla luce del fatto che queste tensioni sono in grado di influire pesantemente sulle prestazioni dei componenti, sia in senso migliorativo sia in senso peggiorativo.

Delle tensioni residue sono state date diverse definizioni: personalmente ritengo che quella che meglio descrive la natura e l’essenza del fenomeno possa essere la seguente “Dato un corpo in condizioni di equilibrio termico e non soggetto a sollecitazioni meccaniche esterne, si definiscono tensioni residue tutte quelle tensioni presenti all’interno del corpo indipendentemente dalla condizione di equilibrio con l’ambiente circostante”.

La prima condizione caratteristica delle tensioni residue è quindi quella di essere auto-bilanciate, ossia di avere sempre risultante nulla quando misurate sull’intero estensione del corpo.  Il motivo per cui queste tensioni si definiscano “residue” è comprensibile ricordando quanto detto in apertura: esse sono così definite in quanto “residuo” della sequenza di trasformazioni meccaniche, chimiche e fisiche a cui il materiale e’ stato sottoposto.

Fig.1
Fig.1

Una definizione che a mio modo di vedere è un po’ limitata, una definizione nata in un momento in cui la vera natura del fenomeno non era ancora stata afferrata in tutta la sua complessità. Non a caso nel mondo anglosassone accanto al termine “residual stress” si è progressivamente affermato anche il termine  “lock-in stress” , ossia “tensioni bloccate all’interno” , un espressione che credo rendere meglio l’idea di cosa effettivamente siano queste tensioni.  Data la definizione, prima di entrare nel dettaglio del fenomeno cerchiamo di darne una rappresentazione intuitiva con un piccolo esempio, in cui magari sacrifichiamo un po’ del rigore a favore dell’intuitività.

Nella figura 1 e’ rappresentato un corpo costituito da due elementi assolutamente rigidi (A) (B) connessi attraverso due elementi elastici (C) (D), il tutto in equilibrio in assenza di sforzi.

Fig.2
Fig.2

Nella figura 2 è invece rappresentato il caso in cui venga inserito un terzo elemento elastico (E) di lunghezza a riposo maggiore della lunghezza di(C) e (D).

Il sistema raggiunge una nuova condizione di equilibrio  in cui sugli elementi elastici (C) e (D) e’ presente una sollecitazione in trazione, e sull’elemento (E) e’ invece presente una sollecitazione in compressione.

Analogamente , nel punto di interfaccia tra gli elementi elastici e le parti rigide si instaurano tensioni in trazione o compressione opposte a quelle presenti sugli elementi elastici.

Riconducendo questo modello macroscopico alla realtà microscopica dei materiali, le tensioni presenti sugli elementi (C) (D) e (E) e sui relativi punti di interfaccia possono essere assimilate alle tensioni residue presenti all’interno di una singola zona di un generico materiale.

Esse sono infatti tensioni che non entrano in gioco nell’equilibrio dell’elemento verso l’esterno, ma si equilibrano completamente all’interno del suddetto elemento.  Data questa prima rappresentazione intuitiva di come possano essere interpretate le tensioni residue, passiamo adesso ad una trattazione più rigorosa.  In generale possiamo dire che le tensioni residue si instaurano ogni qual volta all’interno di un corpo siano presenti elementi di  disomogeneità, dove la disomogeneità può essere del tipo più disparato: si va’ dalla presenza di zone caratterizzate da diversi gradi di plasticizzazione (per esempio in elementi ricavati per laminazione) , oppure dalla presenza contemporanea di diverse fasi (es austenite e martensite  in un acciaio), di diversi stati cristallografici (es la zona termicamente alterata di una saldatura) , di diversi coefficienti di espansione termica o modulo elastico (materiali compositi).  Vista l’ampia varietà di forme e di modi con cui possono manifestarsi le tensioni residue, inevitabile procedere ad una loro categorizzazione. Le categorizzazioni più pertinenti per le tensioni residue sono essenzialmente due: la prima prende in considerazione l’ordine di grandezza della zona entro cui le tensioni residue di bilanciano reciprocamente, mentre la seconda prende in considerazione il meccanismo attraverso cui le tensioni residue vengono indotte all’interno del materiale. In questa serie di servizi il punto di vista adottato sarà principalmente quello dimensionale, che vedremo essere quello che vincola la scelta della tecnologia di misura utilizzata per il rilievo delle tensioni residue presenti in un corpo.

La lunghezza caratteristica

Fig. 3 - A fronte di una dimensione di grano compresa tra 10 e 200 m , gli ordini di grandezza delle zone in cui si sviluppano rispettivamente gli stati tensionali per tensioni residue di I , II e III tipo in un sistema metallico
Fig. 3 – A fronte di una dimensione di grano compresa tra 10 e 200 m , gli ordini di grandezza delle zone in cui si sviluppano rispettivamente gli stati tensionali per tensioni residue di I , II e III tipo in un sistema metallico

Questa categorizzazione,  che prende in considerazione la dimensione spaziale su cui si sviluppa lo stato tensionale, e’ sicuramente quella ingegneristicamente piu’ significativa. Questo in quanto la dimensione spaziale dello stato tensionale è  quella che da un lato impone il sistema di misura utilizzato (non si usa il microscopio per misurare la biella di un motore navale, cosi come un calibro e’ inutile per misurare lo spessore di una rivestimento al plasma…) ,e dall’altro discrimina l’effetto e il significato dello stato tensionale stesso.  Indicando con “lunghezza caratteristica” l0  la dimensione spaziale entro cui una determinata tensione residua si equilibra, si ha:

–          Tensioni residue del primo tipo: sono le tensioni residue la cui lunghezza caratteristica e’ di ordine superiore a quella del grano, fino ad arrivare a coincidere con le dimensioni dell’interno componente. Si tratta di tensioni il cui andamento si presenta comunque omogeneo su porzioni di materiale dimensionalmente significative, e la cui analisi puo’ essere svolta utilizzando i tradizionali modelli continui, ossia senza tenere in considerazione  le caratteristiche cristalline o multifasi del materiale

–          Tensioni residue del secondo tipo:  sono le tensioni residue la cui lunghezza caratteristica e’ dello stesso ordine di grandezza del grano. Sono quindi stati tensionali residue sostanzialmente generati da fenomeni di interfaccia o da disomogeneità fisica o metallurgica  tra grandi adiacenti (es coesistenza di fasi nell’acciaio,  orientamenti casuali di grani a comportamento anisotropo, ecc)

–          Tensioni residue del terzo tipo: sono le tensioni residue la cui lunghezza caratteristica e’ inferiore alla dimensione del grano. Sono quindi stati tensionali generati da disomogeneità interne al grano (es dislocazioni, vacanze, imperfezioni del reticolo, ecc) e che si equilibrano all’interno di esso.

Fig. 4 - Esempio di come la lunghezza caratteristica dello stato tensionale vincoli la risoluzione spaziale della tecnica di misura. Simulando che ogni cella abbia una dimensione unitaria e il colore azzurro indichi uno stato di rilassamento, il colore rosso uno stato di trazione e il colore giallo uno stato di compressione, il grafico sottostante simula il risultato della misura con una tecnica avente rispettivamente una risoluzione pari a 1, 2 , 4 e 8 unità. Per una risoluzione pari a 12 unità il risultato e’ sempre 0.
Fig. 4 – Esempio di come la lunghezza caratteristica dello stato tensionale vincoli la risoluzione spaziale della tecnica di misura. Simulando che ogni cella abbia una dimensione unitaria e il colore azzurro indichi uno stato di rilassamento, il colore rosso uno stato di trazione e il colore giallo uno stato di compressione, il grafico sottostante simula il risultato della misura con una tecnica avente rispettivamente una risoluzione pari a 1, 2 , 4 e 8 unità. Per una risoluzione pari a 12 unità il risultato e’ sempre 0.

Da un punto di vista strettamente operativo, gli stati tensionali del primo  tipo vengono comunemente indicati come “macro tensioni residue” , mentre gli stati tensionali del secondo e terzo tipo sono accomunati sotto l’indicazione di “micro tensioni residue”.  In generale si può dire che gli stati tensionali  del primo tipo vengono generati da qualunque processo che causi una disomogenea distribuzione di deformazioni elastiche o plastiche in un materiale: quindi in pratica ogni processo meccanico o termico effettuato a fini industriali. Quello che è importante rimarcare che questi stati tensionali non sono esclusivi dei materiali metallici, ma sono presenti su tutti i materiali tecnici, quindi anche sui plastici, i compositi e non ultimo il legno.

Gli stati tensionali  del secondo tipo nascono sostanzialmente da fenomeni di interazione intergranulare, e sono tipiche di sistemi multifasici o policristallini: un classico esempio sono gli acciai martensitici in cui è pur sempre presente una quota di austenite residua. Dato il diverso volume specifico della martensite rispetto all’austenite (1.8 contro 1.18) , la mancata trasformazione completa comporta la nascita di sollecitazioni tensionali nate dalla diversa trasformazione volumica dei diversi grani.

Un esempio altrettanto classico e’ costituito dai fenomeni di interfaccia tra la matrice ed il rinforzo in un materiale composito, dove questi stati tensionali di interfaccia sono un elemento fondamentale della coerenza del sistema. Gli stati tensionali del terzo tipo sono riconducibili a difetti del reticolo cristallino , vacanze e soprattutto dislocazioni.

In termini generali si ha che  l’interesse ingegneristico  solitamente è concentrato sugli stati tensionali del primo tipo, considerati gli unici in grado di influire effettivamente sulle prestazioni meccaniche del componente.

Gli stati tensionali del secondo e del terzo tipo sono infatti considerati portatori di informazioni soprattutto sullo stato del materiale piu’ che del componente che esso realizza, e sono di importanza fondamentale per la verifica dello stato metallurgico o della bonta’ dei trattamenti effettuati su quel materiale.

Fig. 5 - Andamento degli stati tensionali del I, II e III tipo in un sistema multifasico, misurati lungo la linea tratteggiata  σ macro in alto rappresenta l’andamento delle tensioni di I tipo, il cui andamento risulta continuo a prescindere dalla struttura granulare.
Fig. 5 – Andamento degli stati tensionali del I, II e III tipo in un sistema multifasico, misurati lungo la linea tratteggiata
σ macro in alto rappresenta l’andamento delle tensioni di I tipo, il cui andamento risulta continuo a prescindere dalla struttura granulare.

In realtà non è propriamente un affermazione corretta, in quanto diversi fenomeni macroscopici hanno comunque una fase di innesco che si “gioca” negli spazi integranulari, come l’enucleazione di una cricca di fatica o l’innesco di una stress corrosion, per cui anche l’analisi degli stati tensionali del II tipo puo’ fornire informazioni significative per le prestazioni attese di un componente in esercizio. Comunque sia, a prescindere  dalla loro natura e categorizzazione, l’effetto quantitativo del complesso di tensioni residue agenti in un punto  e’ dato semplicemente dalla loro combinazione lineare, cosi’ come una pura combinazione lineare quantifica la loro interazione con le tensioni statiche e dinamiche imposte dall’esterno .

Conclusioni

Le tensioni residue sono un fenomeno che si manifesta sulla quasi totalità dei materiali tecnici, costituendo una fonte di sollecitazione aggiuntiva a quelle applicate esternamente al corpo. Caratteristica principale delle tensioni residue è di essere auto –equilibrate all’interno del corpo: la dimensione spaziale entro cui questa auto – equilibratura ha luogo costituisce la “lunghezza caratteristica”  della tensione residua presa in considerazione. La principale categorizzazione delle tensioni residue prende in considerazione proprio questa dimensione spaziale:  considerando materiali metallici, gli stati tensionali riconducibili ad anomalie del reticolo che si sviluppano e si equilibrano internamente al grano stesso sono definiti “di III tipo”.

Gli stati tensionali che si sviluppano invece in corrispondenza delle zone intergranulari e si equilibrano al massimo nell’arco di una decina di grani vengono indicate come “di II tipo”. Gli stati tensionali che si sviluppano su dimensioni spaziali maggiori vengono infine definiti “di I tipo” : questi  hanno un evidenza macroscopica e sono quelli solitamente presi in considerazione per determinare le prestazioni meccaniche  complessive di un componente (carico di rottura, resistenza a fatica, ecc)

L’analisi delle tensioni residue di II e III tipo sono invece fondamentali per la verifica dello stato del materiale e la verifica della bontà di eventuali trattamenti meccanici, termici o metallurgici eseguiti sul materiale, anche se la loro presenza e’ in grado comunque di influire anche sulla prestazione complessiva del componente, almeno per quanto riguarda la fase di innesco di fenomeni puntuali (enucleazione della cricca da fatica, innesco di stress corrosion, ecc)

La lunghezza caratteristica dello stato tensionale considerato vincola la scelta della tecnica di misura, a cui ovviamente verrà richiesta una risoluzione spaziale di almeno un ordine di grandezza inferiore alla lunghezza caratteristica